Disprezzo per l’impresa e disoccupazione crescente

Claudio Risé, da “Il Mattino di Napoli” del lunedì, 13 agosto 2012, www.ilmattino.it

Nell’Italia della crisi e della disoccupazione crescente, molte aziende non trovano risposte alle loro offerte di lavoro. Quei posti, di solito (ma non solo) operai specializzati nella meccanica fine e tecnici informatici sofisticati, corrispondono spesso ai “sogni adolescenziali” che il trenta-quarantenne in crisi racconta allo psicoterapeuta oggi, quando l’impiego scelto perché più “sicuro” o “d’immagine” lo lascia a spasso. Come mai quei ragazzi non seguirono le loro vocazioni?
Si tratta di una questione che questa rubrica segue con attenzione, ed è ora confermata da un nuovo rapporto dell’Unione delle Camere di commercio. Nelle sue pagine, ricche di dati e statistiche, si mostra come molte aziende in Italia fatichino a trovare le persone necessarie al loro sviluppo.
Perché, però, in Italia moltissimi giovani, malgrado le loro diverse aspirazioni, finiscono con l’impegnarsi in professioni inflazionate rispetto alle necessità di oggi, come la pletora di avvocati (se ne occupa ora Severino), psicologi, ed altre occupazioni a difficile impiego, trascurando invece le richieste del mercato del lavoro?
La ragione principale è di tipo psicologico e culturale: la società italiana è rimasta ancora per certi versi “classista”. E’ infatti tuttora convinta che l’operaio o il tecnico “valgano” culturalmente ed economicamente molto meno di laureati o diplomati che possono accedere a impieghi e libere professioni dotate di prestigi passati e suggestioni recenti. Peccato che quelle formazioni siano ormai in eccesso (come mostrano le statistiche internazionali), rispetto alle esigenze di una moderna società industriale e di servizi. Dove si richiedono, ad esempio (lo conferma il rapporto Unioncamere), operai della meccanica specializzata, tecnici della sanità e dei servizi socio assistenziali, ingegneri e tecnici informatici.
Poche di queste figure professionali vengono formate in corsi di laurea. Servirebbero invece corsi professionali e di formazione tecnica ben fatti, dotati degli strumenti necessari a preparare accuratamente gli studenti e del prestigio che meritano nella società di oggi. In Italia però tutto ciò manca, cominciando dal prestigio, perché il modello culturale del Paese considera da sempre queste formazioni come di “serie B”. Mentre la serie A sono le lauree destinate all’impiego nello Stato, in banca, o in libere professioni (a loro volta dedicate in gran parte ai rapporti con lo Stato, o le banche. Le imprese sono assenti da questo universo burocratico).
Questa visione sprezzante verso l’impresa e chi vi lavora nei suoi diversi ambiti è stata sostenuta un po’ da tutti, ma con particolare impegno dalle forze politiche che più esplicitamente si dichiaravano a favore dei “lavoratori”. Forse pensavano a quelli di mezzo secolo fa, ma nel frattempo la società è cambiata ovunque.
Oggi dirottare le aspirazioni dei ragazzi dai settori in sviluppo, verso cui vanno istintivamente, a modelli superati produce nevrosi, malessere sociale, e aumenta la disoccupazione e il ritardo del Paese rispetto alle società più avanzate e democratiche.
Stima di sé, speranza per il futuro, identificazione con il proprio Paese non sono concetti astratti, ma sentimenti che crescono e si rafforzano sulla base di precise esperienze di formazione e di vita. Le più importanti delle quali sono la famiglia, e la scuola. In Italia entrambe (come risulta da tutti i dati a disposizione), hanno giocato contro una formazione moderna, e a favore della formazione “di ieri”.
Per il benessere di tutti, prima ancora per l’economia, è necessario cambiare al più presto.

7 Responses to Disprezzo per l’impresa e disoccupazione crescente

  1. Tyler Durden says:

    messaggio per tutti i 30/40 italiani, Mario Monti l’ha ufficializzato di recente: ci hanno fregati

    (Dall’Intervista di Mario Monti a Sette)
    Che messaggio si sente di dare a quei 30-40enni italiani che sono in grande difficoltà, a coloro che sono stati definiti la “generazione perduta” in termini di mancato inserimento nel mondo del lavoro?
    Le risposte corrette l’Italia avrebbe dovuto darle dieci, venti anni fa, gestendo in modo diverso la politica economica, pensando di più al futuro e un po’ meno all’immediato presente. Alcide De Gasperi diceva che il politico pensa alle prossime elezioni, mentre l’uomo di Stato pensa alle prossime generazioni. Lo sottoscrivo. ****************Quindi la verità, purtroppo non bella da dire, è che messaggi di speranza – nel senso della trasformazione e del miglioramento del sistema – possono essere dati ai giovani che verranno tra qualche anno. Ma esiste un aspetto di “generazione perduta”, purtroppo. Si può cercare di ridurre al minimo i danni, di trovare formule compensative di appoggio, ma più che attenuare il fenomeno con parole buone, credo che chi in qualche modo partecipa alle decisioni pubbliche debba guardare alla crudezza di questo fenomeno e dire: facciamo il possibile per limitare i danni alla “generazione perduta”***************, ma soprattutto impegniamoci seriamente a non ripetere gli errori del passato, a non crearne altre, di “generazioni perdute”.

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  2. anton says:

    La mia storia è simile a quella raccontata. Dopo la terza media avrei voluto fare elettrotecnica, ero portato, fin da piccolo conoscevo, facevo, smontavo circuiti di ogni tipo. Sapevo già tutto prima di studiarlo in una scuola. E’ stata la paura a non farmelo fare: la scuola era lontana e richiedeva treno e battello. Così ho fatto il liceo, a 500 mt, e sono diventato insegnante di lettere. certo mi piace molto ma a 45 anni sono ancora precario, vittima di graduatorie senza senso e futuro. Per questo con i miei studenti sono molto chiaro su questo, cercando di essere pratico e attento alla realtà del lavoro anton

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  3. Paolo says:

    Intere generazioni sono state educate e costrette a cercare risposte al proprio bisogno di sicurezza nella gestione burocratica della stessa idea del lavoro, spesso senza scrupoli ed in modo immorale.
    Qui interviene appunto un aspetto di decadenza psicologica/spirituale, ma anche d’ignoranza della Scienza Economica, che nel paesello denominato Italia è particolarmente grave.
    Questo è particolarmente vero sulla questione del “prestigio” del lavoro, a partire dalle classi dirigenti si ignorano i più elementari meccanismi di cooperazione sociale in ambiente di divisione del lavoro (economia di mercato), per cui come spiegava bene Ludwig von Mises, non si può dire che un Ambasciatore o un Chirurgo possano esser considerati più pilastri della società di un cameriere o una parrucchiera.
    Non c’è niente da fare, questo paese è senza speranza, come cominciano ad ammettere persino le sue classi dirigenti.

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  4. Professor Risè,
    lei è un intellettuale favoloso dall’intelligenza smisurata. Apprezzo il suo articolo anche nelle virgole, e spero che il suo coraggioso lavoro di distruzione di luoghi comuni e false idee perniciose per la sopravvivenza della nostra cara e adorata patria continuino senza sosta.
    Avrà sempre un modesto lettore a suo supporto.
    con stima
    Antonio Romano

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  5. Guido says:

    A 13 anni avrei voluto fare il liceo artistico, mi piaceva disegnare e ci passavo tempo ma senza alcuna tecnica.
    Mio padre (medico neurologo) non concepiva altra possibilità che il liceo scientifico, senza altro sbocco che l’università. Mi disse: artisti si nasce.
    Dopo 5 anni di pena, senza risultati, ne ricordi, mi iscrissi per esclusione alla facoltà di Architettura.
    Laureato, mio padre mi spingeva verso lo studio professionale affermato di un architetto suo amico, io seguii il mio istinto più “artistico” e ebbi un discreto successo nel design.

    Ancora mio padre mi spingeva verso un concorso universitario, “per un posto sicuro”. Nonostante il curriculum importante persi il concorso. Allora mio padre mi spingeva verso il lavoro in una ditta creata da lui e altri amici. Sempre per un “posto sicuro e di sicuro guadagno”. Ma non era la mia vocazione.

    Riuscii a guadagnare fama e soldi facendo il designer, allora mio padre si diede per vinto. Ma anche questo lavoro non mi attraeva abbastanza e dopo anni cominciai a studiare il disegno e a dedicarmi alla pittura, questo grazie anche ai proventi ottenuti con il design.
    Non ho ancora smesso di dipingere anche se credo che sia il lavoro più incerto e rischioso che ho mai tentato di fare. Probabilmente è la mia “impresa” artigianale.
    Faccio questo racconto perché vedo in questa storia un lato materno ipertrofico e degenerato (mio padre era un figlio unico di madre vedova) incapace di valorizzare il rischio e alla ricerca di una presunta sicurezza eterna, molto mortifera e poco erotica.
    Il mio è un caso particolare, ma in fondo l’Italia, è ancora un paese molto “mammone”, ed è forte l’attrazione verso il posto sicuro: nelle braccia dello stato o in qualsiasi altra soluzione in cui prevalga la sicurezza rispetto all’impresa grazie nepotismo e clientelismo e nei casi peggiori a protezionismi di odore mafioso.

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  6. roberto says:

    Egregio professore, questa volta mi permetto di dissentire. La mia esperienza è stata esattamente l’opposto. Da ragazzo avrei voluto studiare psicologia, a 17 anni avevo già letto in biblioteca testi di Freud e Jung… ed ero bravo in matematica (ma scarso in fisica) perchè mi piaceva il ragionamento stringente… e l’alternativa per me sarebbe stata giurisprudenza. Invece i miei genitori, torinesi-FIAT, che negli anni 60/70 furono particolari vittime del mutamento antropoligico di cui parlava Pasolini, decisero che era necessario il POSTO e questo era dato dagli studi tecnici, aggiungendo “siccome ero maschio” complicando così il mio non facile processo di accettazione della sessualità.
    Taglio dei particolari, ma è vero, a 23 anni avevo un POSTO, ma ora a 55 sono iper-precario. Quindi occorre tenere presente che quello che “tira” oggi non è detto che “tiri” anche tra 30 e più anni. La tecnica si evolve rapidamente e “prolifica” per cui il continuo aggiornamento non è sempre possibile per limiti di tempo e budget.
    Direi:
    1) conviene fare comunque quello che si desidera, così almeno non si hanno rimpianti
    2) Comunque è meglio avere una solida base umanistica che resta nel tempo che una specializzazione tecnica che tende a diventare obsoleta.
    3) Poi da veri umanisti non temere di sporcarsi le mani in settori tecnici. Penso che un laureato in psicologia potrebbe prendersi una certificazione da Project Manager e darebbe dei contributi maggiori ad un progetto, fatto di comunicazione, motivazione dei partecipanti, momenti di conflitto… Secondo uno studio dello Standish Group la maggior parte dei progetti che falliscono, falliscono per cause “relazionali” piuttosto che per incompetenza tecnica!

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