La paura: nuova virtù obbligatoria e vecchio metodo di governo

[Lettera di Francesco Paolo Vatti, in coda la risposta di Claudio Risé, n.d.r.]

 

Carissimo professore,

è un po’ di tempo che mi gira nella testa un suo commento, secondo il quale la risposta al virus non sarebbe stata gestita secondo la psicologia. E’ un’osservazione molto interessante. Mi pare, infatti, che in una sorta di sforzo prometeico per non restare colpiti, si sia trascurato quello che gli uomini sentono. In particolare, è stato creato e alimentato un allarmismo, forse persino più elevato del pericolo reale (pure non trascurabile, almeno durante la scorsa primavera). Così, non ho visto dati ufficiali, ma non sarei stupito se il numero di suicidi quest’anno fosse più alto del solito. Altri hanno rinunciato alle normali visite periodiche e temo che anche questo abbia portato a più morti del solito.

Temo che l’idea di terrorizzare anziché informare abbia avuto e continui ad avere conseguenze piuttosto serie. Qui mi piacerebbe avere il punto di vista dello psicologo. Facendo lo psicologo da bar, mi verrebbe da dire che questa comunicazione non possa funzionare. Mentre ad aprile tutti conoscevamo almeno una persona in serie difficoltà (ospedalizzata, in terapia intensiva o addirittura morta), oggi tutto questo non succede. I numeri che si sentono ripetere non coincidono con l’esperienza che facciamo (in un certo senso, è come se tutto ciò avvenisse lontano da noi). C’è poi anche la tendenza che vedo nell’uomo a riprendere a vivere appena possibile (paesi e città dell’Appennino, soggetti spesso a terremoti, sono un esempio di quanto sto dicendo; mio padre mi raccontava che la gente andava al cinema anche durante la guerra…). Così, mi pare difficile mantenere precauzioni anche elementari in questa situazione…

Che ne pensa?

Grazie! Cordiali saluti!

Francesco Paolo Vatti

 

Caro Francesco, la straordinaria assenza di qualsiasi attenzione, empatia e considerazione psicologica  è stata  ormai riconosciuta come una caratteristica specifica dell’approccio del governo italiano al Covid 19: un misto di arroganza, indifferenza, e ignoranza, come se la psiche e i suoi fenomeni non giocassero un ruolo decisivo nella salute e nella difesa del corpo da attacchi esterni.

Al di là di questa prima valutazione però,  un altro fattore, rivelatore dell’anima profonda di questo governo, ha avuto fin dall’inizio grande importanza: la scelta depressiva, che è stata chiara fin dall’inizio. Anziché mettere al primo posto la continuazione della vita e la reazione aggressiva al virus (la ricerca delle cure possibili, lo sforzo di aggiornamento delle strutture sanitarie, la ricerca su come rafforzare comunque le difese immunitarie), la risposta è stata solo la chiusura e il rintanamento, anche rispetto al bosco o ai prati dietro casa per chi ce li aveva, ma non poteva metterci piede, se non voleva multe e grane. Qui l’ignoranza medico-sanitaria si è sposata alla tradizione depressiva dei regimi a vocazione repressiva e autoritaria, per i quali il primo obiettivo è indebolire la volontà popolare, per comandare più facilmente (soprattutto quando non si sa cosa fare e non c’è una cultura politica e di governo consolidata).  Leggi il resto dell’articolo

Norme giuridiche, e istinti repressi

Ciao Claudio, 

in questi giorni ho parlato con alcuni veterinari ed addestratori esperti “della mente del cane”. Mi hanno detto che in questo periodo, di passaggio dal lockdown alla riapertura, molti cani stanno dando i numeri. Non riescono più a passeggiare serenamente, hanno paura dei rumori e delle persone, delle auto e addirittura di un po’ di vento tra le foglie degli alberi. 

Mi rivolgo a te per chiederti: se questi animali domestici soffrono così, fanno fatica a tornare a vivere normalmente, come se dentro di loro fossero profondamente inquieti, non è che anche le persone possono manifestare queste problematiche? Non è che anche dentro di noi c’è qualcosa che ci può tormentare e rendere difficile il ritorno alla normalità (se ci sarà…)?

Grazie Antonello

Ciao Antonello. Scusami se non ce l’ho fatta a rispondere a tempo, ma forse questi primi passi di riapertura ci offrono qualche informazione in più, da scambiare e rifletterci sopra.

Nel mondo dell’istinto (dominante negli animali e nel cane, per quanto addomesticato sia) il cambiamento è più lento che nell’uomo, i cui tempi sono fortemente condizionati da eventi  prodotti nel mondo della cultura e non della natura. Leggi, provvedimenti organizzativi, diffusione di opinioni, hanno per noi umani  spazi  e influenze maggiori che abitudini radicate, bisogni fisici, o riferimenti ai ritmi della natura.  Possiamo (come si è visto) anche chiuderci in casa per quaranta giorni, e poi uscire di nuovo, (apparentemente) come se niente fosse.  L’uomo ben strutturato risponde al suo Io, alla sua coscienza, che a sua volta si modella in gran parte sull’Io collettivo,  in cui hanno grande spazio le Autorità/Istituzioni, le leggi, gli orientamenti dominanti. Leggi il resto dell’articolo

Cosa di un uomo attira una donna?

Caro Claudio, alcuni anni fa lessi in un tuo libro (irrecuperabile causa trasloco) che le donne in un uomo guardano Qualità, Livello e Sicurezza che possono loro derivare da una relazione con quell’uomo. 

Potresti aiutarmi a comprendere l’origine di questa scelta femminile? E, per caso, questa affermazione rientra nel pensiero di Jung?

Grazie per la disponibilità e complimenti per i tuoi libri, di cui sono  avido lettore.

Henri

 

Ciao Henry, la sicurezza di vita delle donne e dei loro figli è sempre dipesa da queste qualità degli uomini. Quelli che non sono in grado di garantirle sono meno interessanti per la qualità della vita loro e dei loro figli.

Anche Jung pensava questo, ma non è una teoria né mia né sua, è una constatazione fatta da sempre. che viene dall’osservazione della realtà.

Claudio

 

Vedi  Claudio,  io mi sono separato (e poi divorziato) qualche decina di anni fa, quando ho iniziato a leggere la rubrica “PSICHE LUI” e successivamente ho approfondito l’argomento uomini-donne sui tuoi libri.

Da allora ad oggi, con un figlio allora piccolissimo, ho (come hanno fatto molti altri papà) tenuto duro e rigato dritto senza mollare mio figlio e vedendolo ogni volta che mi era permesso. Ora ha 30 anni, ha un’ottima professione e vive e lavora  con una ragazza in un’altra nazione europea. Recentemente ho concluso il rapporto post-coniugale con la mia ex-moglie con una transazione.

Il punto è che in questa trentina d’anni non ho mai abbandonato l’idea di costruirmi una famiglia, incontrando una donna con cui ci fosse reciprocità: “io piaccio a te, tu piaci a me”. Purtroppo questo non è avvenuto, pur avendo conosciuto donne a centinaia.

La domanda rimane più o meno sempre questa: cosa di un uomo attira una donna? Nessun psicologo o psichiatra ha saputo rispondermi in concreto, ovvero indicandomi comportamenti da mettere in pratica.

Al riguardo la risposta di Jung era: la donna in uomo guarda la Persona. La tua risposta è: la donna in un uomo apprezza Livello, Qualità e Sicurezza. Più o meno la stessa cosa. Leggi il resto dell’articolo

Corpo, polmoni verdi e libertà: oltre i divieti delle autorità!

Caro Claudio, volevo condividere con te e con tutti un’esperienza che sto facendo in questi giorni di “clausura” forzata e solitaria a causa delle fin troppo note vicende che ci coinvolgono. 

A parte le cosiddette “distanze sociali” che servono, tra le altre cose, a produrre un iper vigilanza e un’ansia che ridonda da una persona all’altra (ad esempio, quando si è in coda fuori da un negozio), uno degli aspetti che più mi infastidisce e mi preoccupa è il fatto che sto perdendo la fiducia nel mio corpo. Non ho mai avuto un corpo super efficiente o particolarmente atletico, ma del mio corpo mi sono sempre fidato: basti dire che ho fatto 12 volte il Cammino di Santiago, 11 a piedi ed 1 in bicicletta. Non ho mai avuto particolari malattie, a 55 anni non sono mai stato in ospedale … eppure di questi tempi mi misuro la febbre tutti i giorni (come un orologio svizzero: 36,5; 36,4; 36,6 ecc.), mi sembra di avere cento piccoli sintomi, mi riguardo eccessivamente (non esco, non faccio ginnastica; salvo poi dover fare 3 ore di coda sotto il sole per entrare al supermercato e non succede nulla…). 

Penso che l’anima mi stia dando alcuni segnali:  immagini del Cammino di Santiago, luoghi, paesaggi, incontri passati e dimenticati, desiderio di viaggi … sfoglio guide e testi sul cammino fantasticando. Come se qualcuno mi dicesse: fidati, muoviti, riprendi ad allenarti, respira … Interpreto nel modo giusto? Succede solo a me ? 

Don Giorgio

 

Caro Don Giorgio, anch’io penso proprio che la tua anima ti stia spingendo a riprenderti il tuo corpo! Senza di quello, infatti, l’anima è perduta (come il corpo senza l’anima).

Uno degli aspetti peggiori di tutta questa tremenda vicenda è infatti stato  proprio il tentativo di scindere questi due aspetti fondamentali dell’umano: l’anima dal corpo. Mettendo entrambi in gravi difficoltà. Se tu ci pensi, anche il divieto della Messa va nella stessa direzione: quella che pensa che il corpo debba solo autoconservarsi e non ammalarsi, chiuso in casa e senza contatti personali (non virtuali) di nessun tipo. Se mi permetti l’invasione di campo, direi che una visione così crudamente materialistica (appunto: disanimata) del corpo è davvero diabolica. (Nella demonologia iranica – dello zoroastrismo, è quella che corrisponde ad Ahriman, il demone “intellettuale” che vuole la fine di tutto ciò che è vivente, dell’anima e dei sensi). 

Per mio conto, posso solo confermare la tua interpretazione dei messaggi dell’anima-corpo e esortarti a seguirli. Ti confermo anche che sì, moltissimi hanno provato questo senso di violenza di fronte alle modalità adottate nel lock-in. Che hanno avuto aspetti assurdi, come il terrorismo  verso l’aria aperta, il movimento, il frequentare gli ambienti naturali. Leggi il resto dell’articolo

Emergenza suicidio: ragazzi soli tra la gente

All’origine del disagio giovanile: famiglia in crisi, mancanza di rapporti, assenza del trascendente. Parla Claudio Risé. 

intervista di Simone Fausti a Claudio Risé 

 

I numeri dicono che in Italia si tolgono la vita circa dieci persone al giorno, in calo rispetto a vent’anni fa. Eppure questo dato lascia senza parole e si resta ancora più sconcertati quando a togliersi la vita è un ragazzo, cioè una persona in cui l’anelito per la vita è particolarmente intenso. Aldilà delle cifre si sa che recentemente la città di Monza ha dovuto fare i conti con due liceali che, nel giro di un paio di settimane, hanno deciso di uccidersi. I due ragazzi frequentavano la stessa scuola e, nonostante i due episodi siano slegati, l’intera comunità scolastica si sta interrogando, anche con l’ausilio di esperti e di psicologi.

“IFamNews” ne ha parlato con Claudio Risé, psicoterapeuta e scrittore, già docente di Psicologia dell’educazione nella facoltà di Scienze dell’Università degli Studi di Milano-Bicocca.

Professor Risé, qual è la causa principale del disagio e dell’alienazione che vivono i giovani, e che porta alcuni di loro a commettere un atto così estremo?

Ci sono una molteplicità di cause, profonde e fastidiose da guardare in faccia; infatti, spesso non le si vede e non se ne parla. Ma la ragione principale che concorre alla scelta di un giovane di togliersi la vita è la solitudine.

Eppure uno dei due ragazzi monzesi che si è suicidato era impegnato nel sociale, nella difesa dell’ambiente e nella politica locale…

Si può essere soli in mezzo a tanta gente. Il vuoto è anche nella comunità dei pari, è nei valori collettivi che ci tengono alla larga dalla questione centrale: il senso della vita. Senza un riferimento trascendente, anche le persone più impegnate e con una forte personalità soffrono la solitudine. Come mostrano i giovani d’oggi, apparentemente amati e curati. Sono i figli della prima generazione dove l’amore per la prole non è provato e coltivato a livello istintivo e diventa secondario rispetto ad altre preoccupazioni come il lavoro, l’apprezzamento sociale, il successo, la ricchezza e la sicurezza. Leggi il resto dell’articolo

Uomini in movimento: quali spazi oggi?

Caro Claudio, riprendo il filo delle ultime lettere arrivate al blog, sulla nostalgia della forza maschile, ed il desiderio di ritrovarsi, come esperienza più o meno conscia, ma comune e diffusa.

Ernst Jünger parlava di “inquietudine della diminuzione”, per ciò che sentiamo esser perduto nella secolarizzazione: “E’ il tempo della ricerca, delle grandi peregrinazioni e delle partenze, dei profeti veri e falsi, degli attendamenti e dei campi militari, delle solitarie veglie notturne”. Difficile mantenere una direzione e – totalmente assorbiti dal lavoro quale forma dominante del nostro tempo – specie gli uomini rischiano di muoversi, confusamente, in solitaria. 

E’ come entrare in una foresta, facendosi largo col machete, con la segreta speranza che da un’altra parte qualcuno stia facendo lo stesso, per prima o poi incontrarsi.

Nella società matrizzata e senza padri (o peggio, con padri traditori), la tentazione di nostalgiche contrapposizioni, battaglie di retroguardia per fantomatici ritorni di immaginarie comunità è molto forte. Potenzialmente più attuale, mi sembra, il ritrovamento graduale di un’amicizia-alleanza maschile, come lega-Bund, in quanto categoria specifica a sé rispetto all’ideologica e per me abbastanza sterile contrapposizione comunità-società.

Certo si tratta di muoversi nell’ombra, riconoscendo valore a tutto ciò che è avvertito come pericoloso e interdetto dai poteri vigenti, senza negarsi il lusso (e il divertimento) di lanciare qualche freccia acuminata, ma assicurandosi di centrare il bersaglio.  

Quale spazio concreto può avere, oggi, una ricerca comune maschile? 

Paolo M.   

Lasciare il superfluo per trovarsi

Caro Claudio, negli ultimi anni la mia vita è cambiata in meglio proprio perché ho abbandonato il piano orizzontale cui abbiamo accennato nel post precedente; non so se casualmente o per un qualche disegno destinale trascendente la mia volontà. La mia amicizia con te, iniziata   poco meno di un lustro fa, ha accompagnato questo progressivo allontanamento dall’orizzontalità bisognosa e dipendente, e il contemporaneo avvicinamento ad una dimensione che attingesse preziose energie più dall’interno. 

È stata una trasformazione radicale. Non lineare, beninteso. Ho avuto ricadute specie all’inizio di questo cammino. Sdrucciolamenti verso il basso che, però, per fortuna, si sono diradati nel tempo e sono divenuti sempre meno inconsapevoli. Adesso è come se osservassi continuamente questa sorta di forza di gravità che a volte riconduce infaustamente alla dimensione orizzontale, quando mi accorgo di prestare troppa attenzione agli oggetti, al cibo, e  mi sento dipendente da ciò che ho ‘immediatamente’ attorno. Allora mi sforzo con tutto me stesso di dare un colpo d’ala che mi riporti più in alto. 

Mi sentivo “repulsivo”, adesso invece sento che le persone desiderano la mia compagnia; con mia grande gioia  cercano in me calore, ed io con grande soddisfazione sono in grado di donarlo. Mi piacerebbe che tu mi regalassi ancora più consapevolezza rispetto a questa mia esperienza che mi ha cambiato la vita.

Con profonda stima e gratitudine ed eterna amicizia. Michele

Nostalgia (e necessità) della forza maschile

Ciao Claudio, sono un giovane uomo di 32 anni e da tempo leggo i tuoi scritti e il tuo blog; questa sera ho deciso di scriverti per raccontarti una mia esperienza. Stavo imparando una vecchia canzone tedesca che parla dei cavalieri teutonici, la canzone si chiama “Die Eisenfaust am Lanzenschaft – il pugno di ferro sulla lancia” (la puoi ascoltare qui: https://www.youtube.com/watch?v=kDVIm_Rb8Os). 

Leggendo il testo (che parla di bandiere, fratelli, armi, confini) ho avuto come un momento di commozione profonda che mi ha portato alle lacrime. Direi che era quasi una nostalgia di qualcosa che non riuscivo bene a definire, come un qualcosa che mi mancava pur non avendolo mai veramente vissuto… direi una compagnia di amici, di fratelli con il quale affrontare un’avventura, una missione (come appunto descriveva la canzone).

Mi sembra che nella vita di tutti i giorni, benché mi vengano chieste molte cose (ad esempio al lavoro) non vengo mai davvero messo alla prova, almeno non in modo totale. E a parte gli obiettivi lavorativi, non mi viene offerto nulla se non divertimento (serate varie con gli amici, vacanze etc). Però non mi basta. Mi sembra che a tutti manchi un obiettivo, una missione ben definita e che chi si pone la domanda sia lasciato a se stesso in questa ricerca.

Ma, come fare? Nel nostro mondo di oggi non ci sono più guerre, avventure, terre da scoprire o confini da difendere. Non c’è più qualcosa che possa impegnare completamente la vita di un uomo. Il rischio viene tolto di mezzo, e ogni attività viene vissuta come un hobby che può essere messo da parte quando si è stufi. Si dovrebbe essere contenti che non ci siano più situazioni rischiose, avventurose e potenzialmente mortali, ma allora perché mi mancano?

Forse sono stato un po’ sconclusionato, ma ho preferito scrivere di getto quello che sentivo invece che aspettare domani, lasciando magari perdere tutto con un “non vale la pena”. Grazie per l’attenzione e la pazienza. Cristiano

Ciao Cristiano, la tua lettera sintetizza con l’immagine  del gruppo di cavalieri, la lancia nel pugno di ferro, e il canto, la grande nostalgia ancora inconscia, ma sempre più spesso ormai anche conscia, del giovane uomo in Occidente.

Una nostalgia innanzitutto di forza, come quella dei cavalieri dell’Ordine Teutonico, un ordine cavalleresco medioevale (ancora oggi esistente), celebrata appunto in questo canto. L’uomo occidentale, i cui compiti sono ormai quasi completamente eseguiti da macchine e quindi è sottratto ad ogni prova e fatica, è divenuto insopportabilmente debole e infelice (non perché sia “strano”, ma perché l’uomo ha, anche fisiologicamente bisogno di prove e fatiche per maturare e stare bene).

Per trovare se stessi è indispensabile mettersi alla prova. In questa ricerca maschile (rappresentata anche dal canto e dall’immagine da te citata), il rapporto con l’aspetto istintuale/animale (il cavallo), l’aggressività e la difesa (le armi), e la compagnia dei fratelli maschi è decisiva. Il territorio, fisico e psicologico (la cultura), è uno degli aspetti più importanti del campo d’azione maschile, così come lo è lo Spirito, sempre presente nel patto fra uomini (altro aspetto oggi largamente assente).

Non credo però che sia la società che deve necessariamente fornire tutte queste cose; l’uomo può benissimo cercarsele da sé (anche quella sarà una prova, generatrice di forza). E’ però necessario che la società non lo ostacoli né lo vieti, come invece oggi accade nell’Occidente contemporaneo. Il recupero di una libertà autentica, oggi resa molto difficile da una quantità di divieti, ostacoli, pregiudizi (tutti organizzati nell’obbligatorio codice del “politicamente corretto” e dalle norme da esso ispirate), è dunque il primo passo. Il “maschio selvatico”, annuncio ancora isolato e brado di ciò che diventerà poi il cavaliere, è una figura, inizialmente indispensabile a questa ricerca. Almeno, a me pare. Ciao, Claudio

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E’ lo smartphone il vero colpevole?

Ciao Claudio, leggo (La Verità) 8.12.2019 che sei anche tu tra quelli che sostengono che lo smartphone sia all’origine di molti degli attuali guai. Eppure, decenni fa, eri tra i pochi intellettuali che scrivevano che il computer non era poi così male, e che della tecnica non si poteva fare a meno. E – a quanto pare – l’hai usato abbondantemente.  Come mai questo cambiamento di rotta?

Per quanto riguarda me, insegnante, mi sono cautamente digitalizzato, ma anch’io sono abbastanza impressionato dai più vistosi danni dello smartphone sugli adolescenti, a cominciare dalla perdita dei freni inibitori, e dall’apparente caduta della capacità affettiva. Poi certo, come anche tu scrivi, questo pauroso restringersi e involgarirsi del vocabolario fa paura…

Ma come se ne esce (ammesso che si possa)? C’è davvero una via d’uscita?

Ciao, Enrico 

 

Ciao Enrico, lo smartphone è solo l’ultimo (per ora) passo sulla lunga strada dello strumento digitale come sostituto della scrittura, dell’incontro personale e della maggior parte della comunicazioni. Sta assumendo caratteri di emergenza, accelerando la crisi nell’educazione, nella vita personale e nelle aziende, perché è comparso molto in fretta, senza preparazione né negli utenti né nelle superstiti figure educative. Ha reso così più evidente e rapido il distacco dei giovani dalle mansioni loro affidate sia a scuola che in azienda, peraltro già in atto per ragioni più ampie, di “sistema” e della loro lontananza da aspetti costitutivi dell’umano.

Tuttavia la crisi è forte perché il cervello, ma anche l’essere umano in generale, aveva finora seguito un processo (quello analogico) di arricchimento e amplificazione dei propri contenuti, non di riduzione e semplificazione come avviene nel digitale. La situazione è drammatica, in particolare, nei bambini e adolescenti perché non è facile crescere e sviluppare le proprie facoltà riducendo l’approfondimento, il linguaggio e la partecipazione affettiva. E’ come crescere diventando però più stupidi: pericoloso, per sé e per gli altri.

E’ un tema di fondo di fronte al quale si trova la nostra civiltà “sviluppata”; in Occidente, ma non solo. Il sottotesto della questione è: la tecnica deve essere al servizio dell’uomo, o lasciamo che l’uomo diventi lo strumento, oltre che il finanziatore, delle tecniche?  Ma ora sentiamo cosa ne dici tu, e anche gli altri, ciao, Claudio

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Le lettere di Psiche Lui

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Le risposte saranno pubblicate a partire dal 7 dicembre sul blog: https://claudiorise.wordpress.com .

Carissimi saluti!

La scoperta di sé. I sentieri dell’individuazione

Il nuovo libro di Claudio Risé

La scoperta di sé
I sentieri dell’individuazione

Edizioni San Paolo, Aprile 2018

In questo libro si parla delle energie che l’essere umano può trovare dentro di sé, da sempre, per uscire dalle difficoltà, crescere e affrontarle. E dei diversi modi che nel corso dei secoli sono stati riconosciuti e messi a punto per farlo, scoprendo le risorse della propria personalità e sviluppandole in un’esistenza il più possibile felice e realizzata.
Un’impresa iniziata in Occidente più di 2500 anni fa, non da psicologi (che ancora non esistevano come tali), ma da filosofi, matematici, scienziati. I quali videro tutti, fin dall’inizio, che il benessere e lo sviluppo fisico, psichico e spirituale dell’uomo comincia dentro di sé, nel graduale riconoscimento delle proprie personali forze, energie e vocazioni. È dal riconoscersi, trovarsi e diventare chi a livello profondo già siamo che nasce la realizzazione personale, nostra e di chi ci sta intorno.
In questo libro si parla di questo percorso, che dal secolo scorso, per iniziativa soprattutto dello psicologo analista Carl Gustav Jung, è stato chiamato “processo di individuazione”. Ad animarlo, figure e immagini che prima ancora della psicologia appartengono al teatro, ai riti religiosi, alle arti, alle narrazioni mitiche o romanzesche dell’umanità. Compaiono così i temi della maschera-Persona che mostriamo agli altri, dell’Io che conduce l’intero processo, dell’Ombra in cui ricacciamo gli aspetti più inquietanti, dell’Anima che sostituisce il potere con la grazia, del Sé che ispira e conclude l’intero sviluppo.

[Per maggiori informazioni clicca qui]

Claudio Risé: «La terra desolata della modernità»

(Da Attuali e inattuali. Il Blog di Andrea Scarabelli, 29/12/2017, blog.ilgiornale.it/scarabelli)

È appena uscito per Lindau un singolare libretto, firmato da Francesco Borgonovo e Claudio Risé. Vita selvatica è allo stesso tempo un dialogo tra due generazioni e una ricognizione sul nostro qui e ora, che si muove agilmente tra storia e archetipi, presente e passato, libertà e necessità, uomo e natura. Un manualetto da tenere sempre in tasca per guardare al nostro tempo in un modo autenticamente alternativo. Ne abbiamo parlato direttamente con Claudio Risé, psicoterapeuta e autore di una serie di studi che, percorrendo strade diverse, giungono tutti al cuore del problema: l’uomo moderno, nelle sue luci e nelle sue ombre. Il libro appena pubblicato non fa eccezione: il sottotitolo di Vita selvatica è, infatti, Manuale di sopravvivenza alla modernità. Un tempo in profonda crisi che viene interrogato in maniera serrata, utilizzando come chiave di lettura The Waste Land di T. S. Eliot, perfetta metafora della contemporaneità, che ci parla di una terra ridotta al silenzio e violentata dall’uomo, sottratta alle Muse e consegnata alla tecnica… Cosa ci dice questa potente immagine?

La terra desolata parla sostanzialmente della desacralizzazione. La terra è desolata perché non è più sacra. È una terra in qualche modo contaminata, offesa e disprezzata. Naturalmente – come tutti i momenti importanti della storia umana – è una situazione ricorrente. Non accade oggi per la prima volta: è un archetipo che ritorna. E noi siamo immersi in questo archetipo dominante – dominante per lo meno da Cartesio in poi, con l’idea filosofica di una res extensa contrapposta a una res cogitans. La terra e il corpo, secondo Descartes, non hanno un pensiero, sono soltanto oggetti. Ma ciò equivale a strappare la terra alla sua origine e alla sua destinazione – che sono entrambe divine – mutilandola della sua sacralità, istituendone così la desolazione. E poiché la desolazione è appunto una violazione, un impoverimento, noi ci troviamo in una crescente infelicità.

È un aspetto importante, che dà luogo a molti cambiamenti, alla fuoriuscita da un certo stato, con la conseguente liberazione dell’aspetto sinistro dell’archetipo. E gli archetipi non sono storielle, ma forze, rappresentate da immagini psichiche attive nell’inconscio collettivo, che acquistano potere sulle persone e le civiltà quando queste entrano nella situazione descritta dagli archetipi, ognuno dei quali è rappresentativo di una precisa condizione umana.  Leggi il resto dell’articolo

Il nuovo libro di Claudio Risé e altre questioni

(Di Armando Ermini, da “Il Covile”, Settembre 2017, www.ilcovile.it)

Nel libro-intervista col giornalista de La Verità, Francesco Borgonovo, l’analista junghiano e sociologo Claudio Risé ripercorre e sistematizza tutte le tematiche che tratta da oltre vent’anni, ossia dalla prima apparizione de Il Maschio selvatico, del 1994, poi seguita da numerosi altri lavori fra cui Il maschio selvatico 2. Lo fa da terapeuta, nel senso di prestare particolare attenzione agli aspetti archetipici dei fenomeni ed alle conseguenze concrete sulle persone, ma di conseguenza anche sulla società, delle scelte che hanno contrassegnato la parabola della civiltà occidentale.

Leggi tutto l’articolo di Armando Ermini – clicca qui

“Se perdi la strada del bosco ti ammali…”  e come guarire dalle malattie di oggi

Recensione di Antonello Vanni www.antonello-vanni.it

In un libro appena uscito, che ho sfogliato ieri in una libreria, ho trovato questa frase: “se perdi la strada del bosco ti ammali, anche psichicamente”. Visto che ultimamente le cose non vanno tanto bene, l’ho acquistato per capire meglio la situazione di malessere in cui mi trovo e anche per trovare una soluzione ai miei problemi dato che il libro si propone anche come “manuale di sopravvivenza”.
Si tratta dell’opera Vita selvatica. Manuale di sopravvivenza alla modernità di Claudio Risé e Francesco Borgonovo (Lindau Ed., 2017), un libro-dialogo tra uno psicanalista e un giornalista che discutono sulle problematiche individuali e sociali del mondo in cui viviamo.
Secondo Risé e Borgonovo, i disagi che ci affliggono in questa società consumistica e tecnologica sono diversi, e molti di essi li riconosco subito tra quelli che mi fanno stare male: crisi del desiderio, perdita di energie, mancanza di spinta vitale, depressione, incapacità di contenere le pulsioni in vista di un progetto più importante e ampio, di una visione e ricerca per la nostra vita, riduzione della vita a coazione al consumo, narcisismo, infertilità sia simbolica che concreta… Di fronte a questo scenario, che appunto in parte mi riguarda, mi sento spaventato ma a un certo punto della lettura anche contento: per sopravvivere al deserto psicologico e affettivo in cui viviamo gli autori propongono infatti un rimedio: la “vita selvatica” che ci indica di “passare al bosco” per stare meglio, ritrovare le nostre energie, la nostra capacità creativa e il desiderio di vivere pienamente la nostra vita.
Quali sono i percorsi di questa “vita selvatica” che ci aiuta a salvarci? Secondo gli autori sono diversi, ognuno di noi può leggere questo libro e trovare il rimedio per ciò che lo affligge personalmente. Io me ne sono appuntati alcuni (ma nell’opera ce ne sono molti di più), che qui sotto condivido, e che vorrei approfondire nella mia vita personale.  Leggi il resto dell’articolo

Guido Venturini: “è l’albero che ha scelto me”

(Intervista dei Maschi Selvatici all’artista della Mostra “L’asse del mondo”, Faenza, 1-18 settembre 2017, da www.maschiselvatici.it)

Maschi Selvatici: Noi maschi selvatici siamo molto interessati alla relazione con la natura. Che cosa ti ha portato a raffigurarla nelle tue opere, che cosa cerchi e trovi nella natura?

Guido Venturini: Nella natura si ritrova se stessi. Noi siamo natura. Gli stessi segni che la mano traccia sulla tela sono segni naturali, ben diversi da quelli meccanici del computer o di altre macchine. Sono segni che hanno un rapporto con il corpo, con il respiro. Riflettono lo stato di forma dell’artista, e anche, inesorabilmente, la vicinanza alla natura dell’artista nel momento in cui lavora. È stato particolarmente lungo il percorso che mi ha portato dal lavoro precedente sul Cristo a questi alberi, mi sono avvicinato ai paesaggi, andando a disegnare tra le montagne o in altri luoghi naturali, per poi arrivare alla semplicità dell’albero, così vicina in fondo al legno della croce, l’albero della vita.

M.S.: Perché hai scelto proprio gli alberi come motivo della tua ispirazione?

G.V.: Forse è l’albero che ha scelto me. Forse le mie mani avevano digerito altri alberi e forme naturali, ed hanno cominciato da sole a dar vita a rami e foglie, tronchi e terra. Senza che io potessi opporre altre forme altrettanto plausibili, altrettanto naturalmente nascenti da un mio fare non troppo mediato dal pensiero. Come una danza improvvisata. Mi sono trovato tra gli alberi. E ancora ci sono in mezzo.

M.S.: Tu hai rappresentato in passato soggetti sacri, ad esempio il Cristo crocefisso (nel tuo trittico “Oggi sarai con me in paradiso” ospitato anche presso il Museo Diocesano di Milano). Soggetti piuttosto insoliti, coraggiosi, in un’epoca che fa volentieri a meno della relazione con il trascendente. Credi che anche la relazione, e quindi l’osservazione, della natura possa permetterci di ri-stabilire un dialogo con questa dimensione di cui l’uomo ha tanto bisogno? Leggi il resto dell’articolo